Vi ricordate il gioco delle forme e degli oggetti da incastrare?
Un triangolo, un quadrato, un cerchio, una stella, un rettangolo… ai quali trovare l’esatta posizione in una tavoletta di legno incisa.
C’è anche la versione tridimensionale.
Un gioco educativo, adatto a bimbi da 0 a 3 anni, dicono le istruzioni.
Si presume, dunque, che i bimbi sappiano, già in quella tenera fascia di età, acquisire questa abilità.
I primi tentativi sono frustranti.
Il bimbo afferra una stella e tenta di collocarla nella forma del quadrato. E insiste perchè la stella riesca a ficcarsi nella forma del quadrato.
Senza successo.
Lentamente, dopo tanti fallimenti, si acquisisce l’abilità di comprendere la forma e di collocarla al suo posto.
Si impara così che ogni “forma” ha il suo posto. Che se si sbaglia il “pezzo” non entra. Che con la forza si può solo rompere il “pezzo”, oppure la “forma”, dipende quale dei due cede prima.
Nella fascia dai 0 ai 3 anni si presume che un cucciolo d’uomo riesca ad acquisire tale abilità.
È una mera presunzione… però.
Ultimamente mi è tornato in mente questo gioco dell’infanzia, e mi sono chiesto:
sono ancora capace di riconoscere la “forma” delle cose e di trovare la loro giusta posizione? Oppure capita anche me di pretendere di far entrare nella posizione del quadrato una stella con le sue punte?
Non mi sono riuscito a dare una risposta.
Le “forme”, con le quali quotidianamente abbiamo a che fare, sono senz’altro più complesse e multiformi di un quadrato, di un cerchio e di un rettangolo.
La logica, tuttavia, resta invariata a quella che dovremmo aver acquisito nella fascia di età dai 0 ai 3 anni.
Quello che ci caratterizza è il metodo con cui si applica.
Si può partire dai “pezzi” e tentare fino a che si trova la “forma” che corrisponde, oppure, al contrario, partire dalla “forma” e tentare fino a trovare il “pezzo” che le corrisponde, scartando gli altri.
Metodi tra loro contrari, conducono, evidentemente, a opposti risultati.
Da genitore penso che mi capiti spesso di voler incastrare la “forma” propria dei miei figli nelle “forme” che reputo adatte a loro.
Mi garantisco così l’insuccesso e la frustrazione. Il rischio che inconsapevole assumo è di deformare la “forma” dei miei figli, o di rompere le mie.
Mi condanno così all’incomprensione della complessità delle “forme” che mi circondano.
Non mi consola accorgermi di essere in buona compagnia in questo metodo al contrario.
Gli esempi sono quotidiani.
Qualcuno ancora pensa, e lo urla appena può, di distinguere le persone in base alla “forma” della pelle, alla “forma” della nazione di provenienza, alla “forma” del reddito… qualcuno addirittura in base alla “forma” del genere, inconsapevole di essere guardato a vista dall’acuta amica Rita (Torti): donna di genere, ma parola profonda di specie.
Qualcun altro distingue gli alunni secondo le proprie forme interiori, “formatesi” in tanti anni di insegnamento. Con l’inevitabile conseguenza di perdersi le abilità proprie delle “forme” di ciascuno, secondo lo schema – già visto sopra – che solo chi entra nella forma prefissata è un “buon studente”, forse della “buona scuola” (aggiungo io con malizia).
Chissà se l’aumento della dispersione scolastica dipenda proprio dall’applicazione al contrario dell’abilità imparata nella fascia d’età dai 0 ai 3 anni, vien da chiedersi.
E così il bimbo che, alla scuola materna, si distrare a giocare con il simpatico amico di fianco, è un bimbo che mostra un deficit di attenzione.
Mentre il bimbo che, alla scuola elementare, stenta a imparare a leggere e a scrivere (e a far di conto chissà!) è un bimbo che, rispetto ai compagni che sono giunti a scuola sapendo già leggere e scrivere (e far di conto), stenta nell’apprendimento.
E il ragazzo che, alle medie, guerreggia con grammatica e ortografia pone dubbi gravi sul suo percorso di crescita scolastica; dubbi che mai, però, mettono in crisi chi quella guerra dovrebbe insegnare a governare, se non proprio a vincere.
Il ragazzo con un passato che pesa, che lo rende incapace di accettare le regole della convivenza, diventa un disturbo per gli altri, più “quadrati” e “ordinati”.
L’andedottica del quotidiano è ricca, fatta di “pezzi unici” che il metodo al contrario non riesce a sistemare nella “forma” prestabilità, e così, dopo vari tentativi, sono messi da parte, forse non scartati, ma di certo considerati non in “forma”.
Come se “formare” volesse dire imprimere una forma predeterminata, indipendentemente dalla “forma” propria di ciascun “pezzo”.
Certo vanno ricordati i tanti (e lo sono davvero!) docenti appassionati e appassionati al “gioco delle forme”, che con pazienza quotidiana e spirito artigiano osservano e studiano (guardano!) le “persone” (i “pezzi”) e cercano la forma più adatta a contenerle, a “formarle”, senza rinunciare a smussarre quel che si deve smussare, perchè senza dubbio la convivenza non consente l’anarchia.
Poi, è giusto dirlo, ci sono anche i “pezzi” che fanno di tutto per non essere abbinati, che confondono le loro forme, appaiono quel che non sono, per paura, forse, proprio di essere “abbinati”, forse temendo di essere così “catalogati”, o pensando (concentrati solo e soltanto sul proprio ombelico) di essere superiori alle “forme”.
Insomma, comincio a pensare che quella abilità che dovremmo aver acquisito nella tenera fascia di età dai 0 ai 3 anni, così scontata non la sia affatto.

Posted on marzo 23, 2017
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